Ronnie Peterson è stato uno dei piloti simbolo della F1 negli anni ’70 per la sua grande qualità e sprezzo del pericolo fino alla fine.
Nella storia della F1 sono diversi i campioni che sono stati in grado di emozionare grazie a prestazioni uniche e scintillanti senza però riuscire ad arrivare alla vittoria e Ronnie Peterson è uno dei grandi assenti nell’albo d’oro del Mondiale, ma non per questo è stato meno grande e meno pianto nel giorno della sua triste scomparsa.
La F1 è uno degli sport più belli e meravigliosi del mondo, ma allo stesso tempo sa essere crudele e spietata come nessun’altro.
Innamorarsi dei piloti è la cosa più facile di questo mondo, perché la loro classe cristallina e il loro sprezzo del pericolo non possono non entrare immediatamente nel cuore degli appassionati, ma c’è chi riusciva ad andare oltre.
Negli anni ’70 il mondo stava cambiando grazie alla rivoluzione studentesca del 1968, ma la F1 andava in direzione opposto, a causa delle eccessive morti che avevano accompagnato l’automobilismo nei vent’anni precedenti e nacque così una generazione di fenomeni molto più prudenti e attenti alla sicurezza.
Jackie Stewart e Niki Lauda su tutti sono stati tra i grandi pionieri della voglia di correre senza dover per forza morire prima o poi in carriera e qualche giornalista ebbe anche il coraggio di chiamarli “Piloti latte e miele” spiegando come i loro predecessori fossero di tutt’altra pasta.
C’era però qualcuno che non aveva troppo in mente la sicurezza, i meccanismi tecnici della vettura e come essa fosse costruita a lui interessava solamente andare più veloce degli altri in qualsiasi momento, perché lui era Ronnie Peterson.
Lo svedese crebbe nella March, dove ottenne un incredibile secondo posto nel 1971 dietro a Stewart, e ironia della sorte il suo primo compagno di squadra fu Niki Lauda, la sua esatta antitesi non solo in pista ma anche fuori.
L’austriaco era parecchio taciturno e tremendamente innamorato della monoposto, tanto da volerla rispettare in ogni modo, mentre lo svedese era la guasconeria allo stato puro, amato anche dal pubblico femminile e da tutti i tifosi di F1 per quella sua voglia di gettare il cuore l’ostacolo.
Peterson dunque divenne un’icona, il divo che tutti volevano vedere, ma che le Scuderie faticavano a digerire.
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La classe era davvero cristallina e certe sue manovre furono da incorniciare e non è un caso che per puntare su di lui la Lotus decise di fare a meno di un certo Emerson Fittipaldi.
F1: gli anni in Lotus di Ronnie Peterson e la morte a Monza nel 1978
La rivalità interna tra Fittipaldi e Peterson divenne famosa e nota in tutto il mondo, tanto è vero che O’ Rato decise di passare in McLaren già dal 1974, perché secondo lui all’interno del muretto si spingeva sempre si più per avere Ronnie come prima guida.
La Lotus purtroppo iniziò a vivere un periodo di profonda crisi, con la macchina che alternava buone prestazioni a rotture davvero inspiegabili fino a quando non arrivò il 1978, anno in cui a Hethel realizzarono una delle più grandi monoposto di F1 della storia.
I piloti della Lotus erano una coppia memorabile con Peterson e l’italo americano Mario Andretti che dopo gli anni passati nei Nascar voleva diventare un mito anche in F1.
Il Mondiale fu a dir poco avvincente, con lo statunitense che rimase davanti in classifica, ma quando ormai la lotta era solo una questione tra i due accadde il fattaccio.
A Monza, una delle sue piste preferite, sbagliò la partenza per un problema meccanico e involontariamente venne così tamponato alle sue spalle dall’amico fraterno James Hunt che causò un incidente incredibile che coinvolse ben dieci vetture e quella di Peterson andò in fiamme.
Per tre giorni i medici dell’ospedale Niguarda di Milano provarono a rianimarlo, ma le ustioni erano davvero troppo gravi e dopo un iniziale ottimismo si spense per sempre l’11 settembre del 1978.
Ancora oggi la sua morte è una delle più dolorose nella storia della F1 e lo stesso Andretti non riuscì a godersi il trionfo che tristemente divenne matematico con la dipartita del compagno.
Lo svedese è stata la scheggia impazzita degli anni ’70, un vero e proprio mito assoluto dei motori e una novità che si collegava alla società del tempo e che faceva da filo diretto con la pazzia dei suoi predecessori.
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È stato davvero tanto amato e ben voluto e purtroppo non riuscì mai a inserire il proprio nome nell’albo d’oro del Mondiale, anche se questo non ha minimamente intaccato il ricordo e la grandezza di uno delle leggende di questo sport, di un mito come Ronnie Peterson.